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Biografia e Attività

Bueno Antonio

(Berlino, 21 luglio 1918 – Fiesole, 26 settembre 1984) è stato un pittore italiano di origini spagnole.

L’infanzia e la prima giovinezza di Bueno trascorrono fra viaggi e traslochi continui. La famiglia intraprende una serie di migrazioni che lo porteranno a soggiornare (per periodi più o meno lunghi) in Spagna, Francia, Svizzera e Inghilterra.

Suo padre, giornalista e scrittore spagnolo di discreta fama, era un personaggio inquieto e “scomodo”, tanto che già dieci anni prima dell’avvento del regime franchista si era trovato costretto ad abbandonare il suo paese per ragioni politiche. La madre, anch’essa esule più o meno volontaria, era invece un’ebrea polacca.

Fra il 1925 ed il 1938 abita a Ginevra (il padre aveva preso impiego come funzionario alla Società delle Nazioni); qui Antonio Bueno termina gli studi e muove i primi passi nella pratica delle arti figurative.

La vocazione pittorica si manifesta prima nel fratello Xavier, di due anni maggiore di Antonio (e che per molti aspetti fu anche il suo unico riconosciuto maestro).

Precocissimi entrambi, instaurano fin dall’adolescenza un sodalizio totale, artistico e materiale, una collaborazione creativa che li porterà addirittura a mescolare e confondere le loro pennellate sulla medesima tela.

Anziché attardarsi a seguire i dettami accademici, i due fratelli vogliono risalire per proprio conto alle fonti del figurativo, visitando con devota attenzione i maggiori musei d’Europa e studiando sui libri d’arte le riproduzioni dei grandi maestri del passato (italiani, spagnoli, fiamminghi).

I due giovani artisti si stabiliscono in un primo tempo a Parigi, dove prendono in affitto uno studio e poi vanno in Italia, nel 1940.

Quello in Italia doveva essere un semplice viaggio di apprendimento artistico, ma in realtà non riusciranno mai più ad allontanarsi da Firenze, città nella quale imprevedibilmente finiscono per trascorrere tutta l’esistenza.

A Firenze Antonio Bueno avrà sempre vita dura, specie nel periodo immediatamente successivo al suo “divorzio” dal fratello Xavier (1949); ma in parte ciò fu conseguenza di una sua precisa scelta.

Volendo, avrebbe potuto costruirsi una buona fama locale, seguitando per esempio a fare il ritrattista; ma preferì sempre isolarsi su posizioni più eccentriche, compiendo scelte che potevano parere ora anticipatrici ora ritardatarie.

Un costante sforzo di originalità, che fu premiato solo all’ultimo e a prezzo di grandi sacrifici.

Negli anni ’40 Bueno si cimenta in prove di raffinato e impareggiabile realismo, che però si dimostrano non prive di rischi.

Seguì, fra il 1952 e il 1959, la cosiddetta stagione delle “pipe”: nei quadri di quel periodo, che tentano un interessante compromesso fra astrazione e figurazione, ogni presenza umana o “naturale” è sostituita da oggetti di valenza metafisica – le pipe di gesso, appunto, che Antonio e Xavier fumavano quand’erano studenti a Ginevra, i gusci d’uovo, le matite e i pennelli.

L’attività di Bueno raggiunge l’intensità massima nel corso degli anni Sessanta, quando egli diviene in pratica il coordinatore dell’avanguardia fiorentina, dando vita a esposizioni e iniziative d’ogni tipo e dedicandosi al contempo a forme d’arte più o meno provocatorie (pittura monocromatica, arte “tecnologica” e multimediale, poesia visiva, audiopittura, pittura a metraggio, sempre con più o meno espliciti richiami all’universo della pop-art).

Gli anni Cinquanta e Sessanta, salvo limitate parentesi, sono per l’artista e per la sua famiglia anni di serie difficoltà e preoccupazioni. La pittura di Bueno fatica a trovare una collocazione sul mercato. Per colmo della sfortuna essa pare riscuotere più successo a Milano che a Firenze e comunque più all’estero che in Italia (la sua prima mostra di autentica risonanza ha luogo a New York, nel 1959).

A parte i costanti assilli economici, in quel tribolato ventennio Bueno deve lottare anche contro l’isolamento, artistico e personale, cui lo condanna la sua condizione di esule; la cittadinanza italiana gli viene finalmente concessa solo nel 1970, dopo due tentativi andati a vuoto e varie vicissitudini burocratiche.

Attorno alla fine degli anni Sessanta si consuma il suo definitivo divorzio dall’avanguardia: l’artista (che non era mai giunto, comunque, a negare il primato della figurazione) torna ora a una pittura dichiaratamente “neopassatista” – o, per usare altre sue ironiche etichettature, “neokitsch” e “pompieristica”.

La stagione delle lotte, delle sperimentazioni, dei sodalizi chiassosi e iconoclasti, è ormai conclusa.

Nell’ultimo decennio le sue partecipazioni a mostre collettive si fanno rare, per non dire eccezionali; anche le amicizie, nel frattempo, si diradano, così come le occasioni mondane, i viaggi e gli spostamenti in genere.

Gli effetti di questo brusco mutamento d’umore sono accentuati da due altre circostanze: il suo trasferimento in una nuova casa (appartata in un bosco a una ventina di chilometri da Firenze) e soprattutto l’improvviso peggioramento delle sue condizioni di salute (Bueno soffriva di cirrosi epatica, malattia causatagli probabilmente dal prolungato contatto con le sostanze nocive contenute in colori e solventi).

Nei suoi ultimi anni egli consacra al lavoro quasi ogni momento ed ogni energia, senza concedersi pause o vere vacanze, sfruttando persino le ore di veglia supplementari cui l’obbliga l’insonnia.

La superiore trascuratezza del maestro famoso, la capacità di vivere come si dice della sola firma, non poté mai provarle: ogni quadro, anche il più piccolo, gli richiede sino all’ultimo varie giornate di lavoro.

Per conservare fresca la materia da un giorno all’altro, e poter così continuare a lavorarla, impastava il colore con una miscela di olio e petrolio; un altro utile espediente consisteva nel riporre i quadri in frigorifero nelle pause della lavorazione. Per assorbire poi l’eccesso d’olio, alternava ai pennelli la carta di giornale, opportunamente passata al ferro da stiro. Spesso tamponava il colore anche coi polpastrelli nudi, procedimento da cui nessun medico riuscì a distoglierlo.

L’ultimo grande impegno che affronta, un vero tour de force, è la preparazione dei quadri per la Biennale del 1984, pochi mesi prima di morire. Per l’occasione vuole realizzare una serie di d’après di grande formato, cosa ormai abbastanza inusuale per lui.

Nei mesi in cui lavora per la Biennale appare già provato dalla malattia e molto indebolito, ma l’entusiasmo per le opere messe in cantiere e l’urgenza di tener fede all’impegno gli danno evidentemente l’energia per andare avanti. Il crollo, infatti, arriva pochi giorni dopo l’inaugurazione.

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